Recensione “Kingdom of madness”  Magnum.

 

 

Con un sound parzialmente ispirato a band come Queen, Kansas e Styx, i Magnum nascono a Birminghan nel 1972, come resident band del club “Rum Runner”; locale, che anni dopo, fungerà da trampolino di lancio per un’altra band locale, ma di ben diverso discorso artistico: i Duran Duran.

 

Dopo aver registrato un demo di quattro tracce (tutte presenti nella raccolta “Archive”, uscita nel ‘93) e a seguito di un 45 giri rilasciato nel 1975 (“Sweets For My Sweet/Movin' On”), e passato in sordina, giungono finalmente al debutto discografico solamente nel 1978 (se pur, registrato due anni prima): “Kingdom of madness”.

 

La formazione risulta collaudata già da tempo, al posto del dimissionario Dave Morgan (poi, in rango con gli Eletric Light Orchestra), del quale si trova menzione nei soli sopracitati demo e singolo, vi troviamo Colin "Wally" Lowe, con i nostri, fino al 1995; a seguire, la meteora Richard Bailey alle tastiere, Kex Gorin, batterista, ma a completare il tutto, la coppia eterna Clarkin/Catley.

 

Bob Catley, ugola d'oro, all'epoca trentunenne è il deus ex machina dell'allora trentaduenne Tony Clarkin, chitarrista e songwriter, autore di pressoché tutte le canzoni della band.

 

Tale lavoro di debutto è frutto di anni di lavoro in sede live, quindi, nasce e si sviluppa in un contesto alquanto lungimirante e dalla lunghezza estremamente dilatata; ma pecca nel contenere una serie di canzoni eterogenee e a tratti disarticolate l’una dall'altra: ascoltandolo, si ha come l’impressione di aver messo mano ad una raccolta antologica, anziché ad un album di studio a se stante.

 

Assieme al successivo flat, si distingue da tutti gli altri album che verranno, per la sua appartenenza a un'epoca diversa: mentre il restante mood della band ha un suono fortemente radicato negli anni '80, la musica che di “Kingdom of madness”, rimane solidamente aggrappata alla decade precedente, come a volere fungere da fotografia di un periodo scarno di contenuti lasciati ai posteri.

 

“Kingdom Of Madness” potrebbe essere definito, probabilmente, l'album più progressivo della band, anche per via di un suono granitico e per la massiccia presenza di sintetizzatori, anche se, date queste premesse, ciò non significa che sia il migliore: del resto, si parla di un 1978, in cui, se il punk stava vivendo la sua parabola discendente, il genere progressivo, era già stato urtato, irrimediabilmente, dalla furia iconoclastica del primo, rendendolo più che fuorimoda, ma proscrivendolo a divenire la parodia di se stesso, e i Magnum non ne escono esenti da questa caricatura, pur confezionando ottime canzoni.

 

Ottime canzoni, si diceva, se si vuole escludere la banalotta seconda traccia “Baby Rock Me”; ma tale punto basso, fortunatamente, non rappresentando se non un intoppo nel cammino delle nove canzoni, nemmeno, appunto, funge da opener: onore elargito ai quasi otto minuti di “In the beginning”, con tutta probabilità la miglior dimostrazione di inclinazione progressiva in tutto il disco, pur lasciandosi ad una base di fondo più incline ad un hard rock melodico piuttosto semplice e basilare: non è ne carne e ne pesce, ma, tuttavia, un buon risultato.

 

Si continua a marciare con le nivee atmosfere di “Universe”, che sembra risollevare le sorti, scandalosamente decadute con la già citata vergognosa “Baby rock me”, per poi giungere finalmente all'epica title-track, da sempre, nerboruto cavallo di battaglia della band e richiestissima ad ogni concerto; principiando con una meravigliosa intro di chitarra acustica e flauto, Genesis-style, procede con un riff hard rock sorretto dalla potente voce solista di Catley; il coro è orecchiabile, ma ciò che non passa inosservato, sono le armonie vocali e l'assolo di chitarra, fortemente commemoranti i primi Queen.

 

"All that is real", pur dimostrandosi leggerina e ligia all'easy listening, ma non per questo debole, ha un arrangiamento sorprendentemente ambizioso, con orchestrazioni tastieristiche che sottolineano la volontà della band di sviluppare al meglio le loro canzoni.

 

La coppia “The bringer” e “Invasion”, suona di ottima fattura, ma troppo similare a qualsiasi cosa uscita in quegli anni, e per questo prive di una personalità propria, specialmente la seconda, che, aprendosi con cori alla “Bohemian rhapsody”, segue in maniera molto lesta, con una chitarra smaccatamente alla Brian May, pagando così il suo pesante tributo a Freddie Mercury & co.; sembra che la band stia suonando una cover dei Queen concernente il tema dell’invasione aliena, anziché un brano proprio.

 

Segue “Lord of chaos”, buon pezzo, ma che nulla aggiunge e nulla toglie a quanto già dato.

 

Si chiude con "All come together" che inizia con un buon piano in duetto col mellotron, che introducono un brano pop rock altrimenti adeguato: ma non oltre.

 

I testi, per quanto possano apparire a tratti superficiali e un poco immaturi, a dispetto dell’età già artisticamente avanzata dei componenti della band, rimangono affascinanti e opportunamente misteriosi, per quanto ingenui e al limite dell’ordinario: l’ordinario di quanto rilasciato all'epoca.

 

Come si era detto all'inizio, l’album, pur venendo rilasciato sul finire degli anni ’70, venne interamente registrato nel 1976; di quello che sarebbe potuto accadere se fosse stato rilasciato nell'anno in cui venne registrato, il 1976, possiamo soltanto immaginare e speculare, ma, è molto probabile che la biografia della band potrebbe essere stata nettamente diversa da quella che poi è stata.

 

Nel complesso, questo album è pieno di promesse, che non riescono ad arrivare fino in fondo; il meglio, dovrà ancora venire, ma, col senno di poi, non sarà così lontano: già, il successivo, saprà risollevare di molto le sorti.

 

Un buon esordio, ma nulla di più.

 

VOTO 7 SU 10

 

Recensione di Yuri Sfratti